Doppio sogno dell’arte

2RC – tra artista e artefice
Achille Bonito Oliva

Chi ha detto che la “vita è un sogno”? Il portatore di questa affermazione, noi vogliamo tacerne il nome, evidentemente ha parlato considerandosi in uno stato di veglia. Ha pronunciato la frase stando su una soglia da cui guardare il mondo, qualcosa in un lampante stato di sensatezza gli ha permesso di pensare di stare fuori da questo sogno, in un luogo riparato da ogni irruzione, posto magari in alto, in una postazione innalzata sopra il cumulo di un quotidiano che si forma e sfilaccia fuori da qualsiasi ordito della ragione.

La catena dei fatti si è frantumata ed essi avvengono fuori da qualsiasi logica consequenziale. Allora per colui che ha parlato, è stato necessario correre ai ripari e mettersi al riparo, mediante una dichiarazione che facesse precipitare la vita dentro l’imbuto oscuro del sogno, da cui non esiste riparo ma soltanto la possibilità di assistere quietamente o con angoscia, senza colpo ferire o interferire. Il sogno permette una rappresentazione di superficie, uno scorrimento di immagini che fluiscono tutte secondo la direzione della cifra.

L’arte invece ci dimostra che non è possibile questa temeraria affermazione, che il linguaggio non è uno strumento di rappresentazione ma è esso stesso la rappresentazione. Colui che crea è l’artefice, colui che stabilisce l’artificio, il dio del sogno e il dio che sogna. Per l’artista non esiste la cesura, la porta chiusa o la porta aperta: la cerniera scorre sui propri cardini e l’artista resta sempre con la mano attaccata alla maniglia, non per prudenza ma per meraviglia. Egli scopre che la mano stessa è la maniglia. Non è l’artista a sognare, è l’arte stessa che sogna, che si muove non tanto a scimmiottare il mondo, quanto piuttosto a simulare il movimento e l’arresto, la fuga e la sospensione, insomma il linguaggio, si sente onnipotente e insegue continuamente il suo sogno di potenza. Naturalmente non tutti i sogni sono uguali, molti volano a una altezza imprendibile e altri ancora volano rasoterra oppure in maniera sotterranea. Sogni di ebbrezza e sogni di degradazione ma tutti sublimi. Non tutti i sogni sono alla portata di tutti.

Alcuni sono esclusivi e girano di bocca in bocca soltanto tra gli artisti, volano a mezza altezza come un soffio, tra i sognatori di immagini che se li raccontano tra loro guardandosi negli occhi, sussurrandoseli all’orecchio. Altri sogni invece possono liberamente circolare anche tra gli uomini comuni. Partono dalle immagini dell’arte, la scultura classica greca, e poi dirottano a una altezza più accessibile, fino a arrivare alle bocche e agli orecchi e anche agli occhi comuni. Questi magari si divulgano a gran voce, qualche volta anche con chiasso, secondo una circolazione eclatante e ammirata.Talvolta succede anche che il sogno sogna se stesso e allora ci troviamo di fronte all’immagine più indecifrabile, in quanto esso non vuole alcuna lettura esterna a sé, ma desidera dormire su se stesso senza mai venir interrotto e portato in uno stato di veglia. Poi esistono i sogni che volano proprio per essere guardati e sono quelli dell’arte, che assumono la veste del linguaggio visivo. Questi possono correre e scorrere in maniera figurale e astratta, nel profondo degli uomini e sotto i loro piedi. È dal 1959 che Valter ed Eleonora Rossi assumono il doppio sogno dell’arte nella coscienza shakespeariana volutamente e manierista indirettamente “che noi siamo un sogno in un sogno”. Da allora con costante febbrile dormiveglia la coppia è diventata un soggetto collettivo, non semplici artigiani e fedeli esecutori, piuttosto una felice targa (2RC) che ha accompagnato il lavoro fedele e creativo insieme di due soggetti che non hanno mai spodestato gli artisti del loro ruolo di creatori. Artefici portatori di un valore aggiunto nella realizzazione grafica per l’immagine matrice dell’artista. Il lavoro di Valter ed Eleonora Rossi, come una sorta di targa automobilistica, ha viaggiato in tutto il mondo, spostandosi dall’Italia in America, in Giappone e cogliendo sempre protagonisti e giovani promesse dell’arte della seconda metà del XX secolo. Artefici e non artieri, semplici artigiani della creazione altrui, hanno sviluppato un nomadismo culturale che li ha portati all’incontro con artisti dell’astrattismo informale, action painting, Pop Art, Arte Povera e Transavanguardia. Senza contare l’incursione nel campo creativo di svariati artisti delle avanguardie storiche, europei ed americani.

Se la 2RC strategicamente ha covato e praticato la strategia del doppio sogno, un esercizio grafico che ha creato una nuova pelle all’arte contemporanea, ora torniamo al primo sogno, quello dell’arte. L’artista ha scelto di sognare un sogno dell’arte che attraversa molti territori, quelli che si dipanano mediante fili di immagini e forme solari, fatte di frammenti e di improvvisi bagliori, di costanti ritorni, e di allontanamenti e sprofondamenti in un luogo che sembra appartenere a tutti. Il territorio magico è illuminato da uno sguardo interiore che brilla di luce propria, rafforzato da un occhio che possiede la doppia capacità di guardare e di guardarsi: Alechinsky.

Il sogno è costellato e disseminato da frammenti che vivono all’incrocio di molti cieli, che gravitano a diverse altezze. I frammenti sono sempre sottili e mai corposi, la leggerezza permette loro di vagare velocemente e di sostare tranquillamente senza ingombro e senza squilibri. Non esistono sprofondamenti o precipitazioni. Gli elementi si dispongono secondo i dettami della compresenza e della epifania, secondo il senso dell’illuminazione e dell’apparizione improvvisa: Calder.

L’immagine è il portato di un campo di segni disseminati fuori da qualsiasi idea di percorso e tutti pronti a rientrare dentro se stessi, a sognare la propria esilità ombratile. Il sogno non è fatto di immagini ferme e perentorie ma di filamenti di immagini pronte a frantumarsi nell’intreccio di molti itinerari. Esso è fatto per essere guardato da un occhio interiore, nella mobilità delle sue tracce. Tracce che sono nello stesso tempo durature, radicate nella storia dei sogni che abbagliano e hanno abbagliato la storia millenaria degli uomini e della terra, l’immortalità: Burri.

Le forme germinano direttamente nel sogno dell’opera, ritagliato nella sua inquadratura, quella che trova i suoi bordi nei confini della scultura che sono poi i confini del sogno stesso. Il linguaggio germinante dell’arte provoca molti fiori, anche l’ossimoro del giardino come deserto. Esso prolifera su se stesso e inonda la superficie del quadro con attento disordine. L’attenzione nasce da una disciplina biologica del linguaggio, che si dispone sempre secondo rapporti e relazioni di istantaneità: Victor Pasmore.

Anche i colori si dispongono in maniera aperta o dentro i filamenti delle immagini oppure fuori, a deconcentrare le figure, a stabilire nessi che precipitano poi lontano secondo echi che si vanno spegnendo lontano. Talvolta essi scoppiano vicino con un fragore che resta sempre silenzioso, in quanto investe sempre l’occhio, seppure quello interno. Da qui poi scorre velocemente negli altri organi della percezione, che non sono mai solamente visivi. Le immagini tornano così da dove sono partite, nei recessi bui o totalmente luminosi del profondo giardino davanti a lui: Bacon.

Il profondo non è naturalmente il luogo dell’irrazionale, del puro misconoscimento della ragione, ma il serbatoio che trova sempre nuova linfa e rinnovamento dalla sua stessa pulsione a rimanere sotterraneo. Un serbatoio messo tutto in orizzontale che non ama alzare la testa, che ha per attitudine un movimento inclinato. È il sogno dell’arte a trasportarlo fuori dalla sua posizione supina, a trascinarlo nel luogo della rappresentazione, dove non subisce perdite, semmai si accresce di un ulteriore splendore oscuro: Cucchi.

“Disciplina di lavoro per avvicinarsi di più alla forma”(Miró). L’asserzione del pittore scaturisce dalla natura stessa del linguaggio, che ama porsi sempre sotto lo sguardo in maniera compita e compunta. La compunzione non significa certamente perdita di intensità, semmai accrescimento e maggior concentrazione. Il sogno dell’arte passa attraverso il superamento dell’improvvisazione, l’affinamento dell’immagine che calibra la propria apparizione in maniera che non fuoriesca precipitosamente dal serbatoio che fino ad allora l’ha intrattenuta: Julian Schnabel.

L’intrattenimento dell’immagine è l’unica possibilità di serbarla fuori da ogni cesura. L’artista possiede il dono di non spossessare l’immagine del suo spessore, dei suoi legami interni. L’arte non produce mai lacerazioni, forme e figure conservano profonde radici che le radicano nella sostanza dell’immaginario. L’immaginario non è un luogo astratto, la condizione astratta della fantasia, ma il terminale ininterrotto del serbatoio del profondo. Il linguaggio costituisce la meccanica attraverso cui esso avvia e produce le sue polluzioni: Afro.

La vibrazione è il movimento che l’artista sviluppa per avvicinarsi al luogo interiore. Da questo luogo la natura non è lontana, anzi essa vive all’unisono sulla stessa lunghezza d’onda, fatta di espansione e contrazione, di sottili tremiti che impediscono grandi eventi ma costituiscono le polarità temporali, e per questo invisibili, entro cui avvengono i piccoli eventi della nascita e della morte: Clemente.

La simultaneità dell’immagine non è il portato della velocità ma semmai di una calibratura paziente che tende a non privarla della sua iniziale intensità. L’intensità è la temperatura che misura la realtà dell’immagine, il suo rimanere inalterata dentro la griglia del linguaggio: Max Bill.

Una lotta lenta e paziente si apre tra l’artista e i suoi attrezzi, la posta in gioco è impedire la perdita che può derivare dall’uso troppo concitato del linguaggio. L’artista è consapevole che il linguaggio ha una struttura profonda e che il profondo è strutturato come il linguaggio, con nessi e passaggi. Dunque l’artista, come l’acrobata, cammina lentamente sul filo, nel tentativo di attraversare un punto strettissimo in cui è possibile precipitare: Fontana.

L’artista ha conservato sufficienti radici per rimanere saldamente ancorato alla vibrazione che regge la natura e anche il sogno dell’arte. Qui geometria e segni organici si intrecciano incessantemente e stabiliscono l’armonia di apparizioni che conservano dentro e fuori di sé l’intenso fantasma dell’insieme. L’insieme è la circolarità del tutto e anche la lotta per trattenere l’iniziale vibrazione dentro i confini di un linguaggio che prolifera un doppio senso, quello ascensionale della finitezza e quello illimitato e discendente di un infinito che si può soltanto sospettare: Arnaldo Pomodoro.

Per questo l’artista nella sua opera rovescia la nozione di natura in anti-natura mediante l’uso di materiali classici come il marmo o protesi tecnologiche. Mediante citazioni di mutilazioni, crudeltà e morte costruisce tutta una serie di opposizioni a quella che è la più comune nozione vitalistica della natura. A questa, l’arte risponde con la cultura quale strumento di perpetrazione dell’uomo come pensiero e dunque di immortalità: Consagra.

L’artista decide di non operare soltanto su semplici coppie di opposizioni, bensì di praticare un linguaggio perversamente polimorfo. Positivo e negativo diventano polarità che trovano nell’opera un luogo in cui esercitare le proprie valenze in termini di simultaneità. Qui allora si scopre quale sia la natura specifica del linguaggio che congela la vitalità in una forma esemplare e definitiva. Si scopre che l’opera non è soltanto creazione ma anche riflessione sul paradossale desiderio di immortalità che l’arte cova dentro di sé e che è indispensabile la pratica di un linguaggio, per sua natura portatore di immobilità e dunque di morte: Nancy Graves.

L’artista nella grafica con la sua opera, fatta di scultura, disegno e installazione, programmaticamente eleva a morte superiore la morte inferiore del quotidiano: Nevelson.

Natura-morte è dunque l’essenza del linguaggio che porta ad ogni creazione. Qui si innesca una sospensione di ogni ostilità del tempo, si realizza una sorta di apnea protetta dalla forma che blocca il respiro biologico e trattiene l’immagine sulla soglia del nostro sguardo: Kounellis.

Natura e antinatura concorrono nell’opera a realizzare un armistizio tra la catastrofe del tempo e il nostro desiderio di durata. L’arte sembra al servizio di un sogno di onnipotenza, quello di eternare il nostro presente, espellere allegramente ogni speranza di futuro nell’ hic et nunc di un’opera che, attraverso la contemplazione, trattiene anche lo spettatore sulla felice soglia dell’eterno presente: Manzù.

Qui si raccoglie anche la memoria delle sculture. Tali sculture utilizzano i caratteri aurei di armonia, proporzione e simmetria che sostengono l’identità della scultura classica, in particolare quella greca giunta fino a noi attraverso i reperti archeologici raccolti nei musei. A noi è arrivata la Nike di Samotracia mutilata e privata di alcune sue parti. Eppure la nostalgia della mancanza, il sospetto di una perfezione incarnata nella forma ci permettono di fruire l’opera mediante un apporto di fantasia contemplativa.

Non c’è bisogno di tutto questo nel fruire l’arte. Qui la mutilazione viene accettata in partenza, dall’artista e dai modelli stessi, rappresentata attraverso un’economia formale che restituisce armonia e proporzione: Chillida.

L’uso del marmo, la citazione nella grafica di un materiale tanto plastico, aiutano l’opera ad assumere una sorta di serenità che si riverbera su tutta l’immagine. L’artista dà esemplare definizione, una dignitosa normalizzazione, ad un apparato corporale che esibisce frontalmente le proprie mancanze. Se generalmente la scultura celebra le gesta eroiche di personaggi che acquistano visibilità staccandosi dal quotidiano, ora è il quotidiano stesso che non richiede alcun eroismo ma parla attraverso la propria evidenza: Moore.

L’arte mette a morte la mutilazione e la parzialità del quotidiano mediante un linguaggio che si esprime attraverso la preferenza di un genere come la natura morta. L’artista ha creato l’artificio di un paradiso naturale fatto di perennità , una compresenza di fiori, spine e piante diverse tra loro eternate nella bellezza istantanea di un rigoglio bloccato nel suo momento migliore: Sutherland.

Anche qui la protesi tecnologica interviene come anti-natura sul principio di natura organica. L’artificio aiuta a sostenere una cosmesi a tempo indeterminato, una eternità presentificata da un giardino che però richiede uno spazio chiuso e separato nello stesso tempo dalla vita del nostro quotidiano: Sonia Delaunay.

Natura naturans e natura naturata si confrontano in una dialettica che porta alla fine alla fondazione di una terra di nessuno, il privilegio di un luogo. Noi abitiamo la soglia oltre la quale è fissato a futura memoria uno spettacolo felicemente paralizzato nel suo svolgimento. Ci separa una linea di confine tra noi abitanti la morte inferiore del quotidiano e l’opera d’arte che occupa interamente la morte superiore dell’eterno presente: Man Ray.

Il sogno dell’arte sembra correre lungo altre altezze, secondo linee di volo che non conservano distanze dal suolo, anzi sembrano percorrere sentieri che si trovano all’altezza opaca dei piedi. Lo specchio, la sua composta consistenza, le tracce di alcune memorie di oggetti, i riflessi che accennano colloqui solitari con la parete. La superficie è uno specchio, un orizzonte che corre fermo e irremovibile a sbarrare lo sguardo. Qui il sogno dell’arte avviene mediante segni incisivi, che hanno la forza della craquelure, una rottura contenuta, come una memoria: Turcato.

Ora tutto diventa precario e nello stesso tempo definitivo, tracciato dentro la sostanza cementata di una superficie che accoglie e trattiene ogni segno in maniera duratura. Il sogno dell’arte ha lunga memoria e non si perde dietro le volubili sequenze di semplici associazioni libere. Le immagini restano impigliate dentro lo spessore di una materia nera e speculare. Eppure corrono tutte a ripararsi sulla superficie del muro, da dove poi non è possibile fuggire lontano, dal muro al suolo: Richter.

Il tempo e lo spazio trovano una sistemazione irreversibile, una collocazione incrociata e resa a futura memoria dalla capacità della superficie di saper far muro contro ogni instabilità. Lasciare una traccia significa incidere, entrare dentro la materia con polso fermo oppure cogliere velocemente e d’incontro la parete per segnare in corsa la cifra del proprio passaggio. Caso e decisione, geometria e forme aperte, si pongono in una posizione orizzontale, ferma e raggelata, immagini tutte di una presenza che non trova altre testimonianze al di fuori di queste memorie indirette: Capogrossi.

Dunque la parete, il muro è di tutti ma soltanto il gesto individuato e incisivo dell’artista riesce a intaccare la dura e opaca resistenza della sua superficie. Forse il muro è di tutti perché tutti lo possono guardare, patrimonio dell’occhio sociale. Ma il sogno dell’arte possiede la forza di farsi vedere, di apparire anche a coloro che artisti non sono, ma soltanto come rappresentazione: Vasarely.

L’arte porta il suo sogno d’arte a contatto dei piedi e del corpo, abbassa il volo delle immagini ad altezza dello sguardo collettivo, su un supporto che, per definizione, è leggibile da tutti: lo specchio. Qui avviene che tempo e spazio concretizzino i loro intrecci e fissino i loro incontri nelle forme convenienti e consone alla natura del supporto. I segni infatti sono quasi sempre graffiti, piccoli squarci e ferite che si rapprendono al suolo. Il libro collettivo che parla un linguaggio ancora oscuro e singolare: Penck.

Esso è attraversato da una scrittura visiva duratura eppure precaria, fatta di segni muti, di calchi di oggetti e di passi perduti. Come se fossero caduti in una sostanza fresca che li abbia poi cementati dentro di sé, senza più farli fuggire. Il sogno basso avviene interamente calato nel quotidiano e non cita immagini alate o eccentriche, si accontenta di citare la prosa innumerevole di piccoli oggetti, di piccoli incidenti di forme che incontrano lo specchio, di segni che si rapprendono nella materia destando una memoria duratura, altrimenti impossibile: Francis.

La memoria lunga del muro non è una qualità insita della materia ma effetto trasfigurante del sogno dell’arte, che trova nella fantasia individuale dell’artista la forza di portare a lunga vita ciò che altrimenti deperirebbe. L’artista è il creatore di un lungo sogno. La creazione avviene attraverso la sorpresa di accostamenti e aggregazioni di forme e oggetti che vivono normalmente molto distanti tra loro: George Segal.

Il sogno dell’arte della 2RC è quello di creare nuove famiglie di segni, nuovi nuclei di senso, attraverso cui è possibile sperare sempre altri incontri e una perenne conflittualità di ordini. Incessantemente il passo torna, per tracciare il superamento di vecchie disposizioni di segni. Ma questo è possibile perché la materia speculare possiede dentro di sé già la forza di reggere il mutamento, una continua manipolazione della sua superficie, superficie dura e nello stesso tempo dolce e arrendevole. Stampi, calchi, concavo e convesso, ritmano la superficie secondo accordi e dissonanze spaziali che non turbano la capacità di reggere nuovi interventi. Il muro creato è opera che risponde al proprio sogno, che cova dentro di sé le pulsioni di una fantasia libera da qualsiasi schiavitù di un alfabeto definitivo. Qui non esiste una scrittura che si ripete, né una scrittura che si arroga il diritto della ripetizione. L’onnipotenza del gesto irripetibile e individuale accompagna e sostiene l’energia del linguaggio. Perciò il passo non ha nausee, perché non esiste ripetizione, ciò che procura sempre la coscienza dell’impossibilità e dello scacco. Il sogno dell’arte è proprio di portare il quotidiano e la sua convenzione sul piano orizzontale e scivoloso del suolo, dove tutto si tramuta in occasione di segno.

La trasfigurazione è il portato dell’intreccio tra passo e specchio della necessità del segno di assumere la carne della materia e di questa di uscire dall’inerzia costitutiva della propria essenza. Il sogno dell’arte della 2RC è quello di attraversare la condizione bassa del linguaggio quotidiano, nella consapevolezza che soltanto l’artista può arrivare a scavare dentro la sua sostanza opaca e portare sulla superficie una nuova energia, materiale e morale. La 2RC tende a socializzare il sogno dell’arte, disponendolo metaforicamente e metonimicamente nella possibilità di un’apparizione sensibile a ogni sguardo, pronta a tramutarsi in comunicazione, seppure attraverso un alfabeto visivo e mentale che conosce molto bene i labirinti entro cui il linguaggio va a cacciarsi. Il sogno è quello di allargare il contagio di una sua attitudine, che consiste nel portare il quotidiano in una condizione di impossibilità, dove il linguaggio esce dagli argini del significato per slittare verso altre derive.

In definitiva Valter e Eleonora Rossi, targati 2RC, hanno viaggiato in lungo e in largo tra le opere di numerosi artisti. Praticando un nomadismo pellicolare, una sintonia tra creatore e creativo, artista e artefice che ha amplificato il sogno dell’arte tra XX e XXI secolo, in un doppio sogno, che ha prodotto un sigillo di ulteriore perennità all’immortalità dell’arte.


Achille Bonito Oliva