Studio di Pierre Alechinsky

Bodrum
Turchia
Pierre Alechinsky in barca
Pierre Alechinsky in barca
Pierre Alechinsky in barca
Arbre de vie
Mare Nostrum
Testo di Valter Rossi da La vita è segno 

Ci fecero ormeggiare sotto il Castello, tra una nave da guerra e una strana imbarcazione con bandiera Olandese, attraccata vicino ad una vela Canadese. Rimanevano poi solo alcune piccole barche da pesca, per i turisti, con grandi bandiere Turche.

Ci eravamo ormai abituati a subire le solite domande: “da dove venite? che bandiera è mai quella…?”. Poi, una signora, con un francese fluido, un viso colpito dal sole, molto espressivo, mi domandò se venivamo da Roma e al mio assenso disse “allora siete gli amici di Ives Rivieres?”. “Certo!” risposi. A quel punto si presentò: “Sono Miki Alechinsky, non credevamo sareste mai giunti a Bodrum. Per noi arrivare in automobile è stato un vero problema, ma il posto è così bello e diverso che si merita tutte le fatiche e i guai subiti”.

Dopo due ore, sul SIDA, eravamo in undici persone: Pierre, con un cappello tipo legione straniera per evitare che il sole finisse di distruggerlo, fu subito amichevolmente disponibile. Ives sicuramente lo aveva informato delle mie intenzioni di incontrarlo, ma non immaginava che sulla barca mi ero portato tutta l’attrezzatura necessaria per realizzare qualche incisione.

Oltre a Pierre e Miki, c’erano Nicolas loro figlio, Ives Riviere e sua moglie Niki, Jean Clerté assistente e stampatore di Pierrre con sua figlia. Tutti erano alloggiati in un piccolo albergo sul porto, decente per quell’epoca, adattissimo a Pierre perché la sua stanza era direttamente aperta su un enorme terrazzo che si affacciava sul porto. Quello era il suo studio dove poteva lavorare.

L’atmosfera che si godeva da quella posizione era fantastica. Il castello di fronte, pur grande, finiva con l’essere come un passante in una folla variopinta.

La storia di Alicarnasso non aveva lasciato tracce visibili ma era tutta presente per lo spettacolo della natura circostante, immersa in una luce tersa e intensa che ci faceva cogliere particolari e dettagli solitamente sfuocati.

Una composizione così vasta è ancora nella mia memoria. Anche profili di montagne a distanze incredibili si avvicinavano, con la loro silhouette, come quinte su quinte con una gamma di colori inimmaginabili. Dalla parte opposta, le isole in successione lasciavano poco spazio al mare perché sentivi che altre isole erano pronte ad apparire.

Nei giorni successivi andammo in macchina a visitare Didima, Mileto, ed Efeso.

La nostra piccola carovana si spostava in quelle antiche aree, sollecitata in tutti noi da vecchi amori e memorie studentesche risvegliate man mano che i nostri occhi si posavano su questo o quell’insediamento.

Per la prima volta, con Eleonora, ci rendemmo conto che, anche se i Romani erano riusciti a distruggere il bello per instaurare il loro modello urbanistico, in quei siti, nel letargo dei secoli, affiorava qua e là, in piccoli frammenti, solo la gioia della bellezza greca, perché l’architettura romana, persa la funzione per cui era nata, rimaneva una comparsa metafisica.

Il modo di lettura degli amici francesi invece, era distaccato, con meno emozione, come stessero ancora subendo la dominazione romana. Noi affrontavamo obiettivamente ruoli critici, consapevoli che la bellezza greca, per l’invasore romano, doveva cedere il passo alla loro dominazione.

Su quel terrazzo prese vita un gran numero di opere, che Pierre realizzava subito dopo ogni visita, tra mare e monti e civiltà così diverse. Era entusiasta delle innumerevoli idee che riusciva a catturare. L’unica preoccupazione era di avere con sé carta a sufficienza per poter saziare la sua fame di pittura.

Pierre sapeva che sul SIDA avevamo portato alcune lastre di rame e che, volendo, avremmo potuto realizzare qualche incisione. Incominciò a parlarne il giorno che decidemmo di andare a Knidos, penisola colma di antichità, accessibile in quei tempi solo dal mare.

La prima difficoltà, arrivando nella piccola baia, fu che i militari ci impedirono di atterrare con il tender. Si poteva andare a terra solo a nuoto e per un brevissimo tempo.

Qui le fibrillazioni di Pierre incominciarono ad affiorare perché era la prima volta che aveva un contatto così drastico e intimidatorio, proprio là, dove un uomo di cultura come lui aveva il diritto di essere accolto con rispetto e con la massima generosità. Tutto questo, quei soldati armati, non erano certo in grado di capire.

Avevo saputo da Danny Berger, che in quel periodo collaborava con noi per aprire la galleria a Roma, che a Knidos gli scavi erano diretti da una sua amica, Iris Cornelia Love, archeologo americana che lì lavorava da alcuni anni per la Long Island University.

La prima cosa che feci, atterrando a nuoto nella baia fu di cercare Iris, che già da terra aveva notato la bandiera Italiana sventolare sul SIDA e non attendeva altro che incontrarci.

Era una appassionata amante del nostro paese. Quando la chiamai per nome, mi abbracciò affettuosamente e lì capii che Danny l’aveva avvertita della nostra probabile visita.

Il culto di Afrodite in quella penisola era stato il motivo di quell’insediamento e quella era la ricerca che si erano prefissi di attuare con quello scavo. Iris aveva iniziato gli scavi, già dal 1967, con alcuni giovani ricercatori americani, aiutati da una cinquantina di operai turchi locali che lavoravano con molto entusiasmo a questa iniziativa.

Al tramonto dovevamo ritornare a nuoto in barca dove ospitavamo a cena Iris e, a rotazione, alcuni suoi collaboratori. Con la fantasia alimentata dalle varie scoperte che avvenivano giornalmente, si arrivava ad immaginare quanto il periodo greco, in quel sito, aveva lasciato in eredità. Pierre fu interessato più dai racconti che sentiva, che dai ritrovamenti.

In quella baia, una mattina, Pierre mi chiese di affrontare le lastre di rame, si sentiva pronto e carico. Così nacquero, sul SIDA, le due incisioni: “Mare nostrum” ( p. 316) e “Arbre de vie” (p. 227), sbalordendo tutti noi, Iris compresa. Una sintesi conoscitiva, in quello spazio saturo di storia, recuperata in lettura “Cobra”.

Il colore, in quella parte del Mediterraneo, è così esasperato dal sole che si riduce al bianco e nero; in una delle due incisioni c’era solo una piccolissima nota di rosso, una presenza, che esaltava il valore saturo di luce del “Phicus” inciso sul rame. La grande lastra era sostenuta da sette piccole metope che contenevano incise altrettante radici.

Questa prima intensissima, magnifica esperienza con Pierre rese necessario un nuovo incontro che avvenne a Roma.