Giuseppe Capogrossi

opere grafiche
2RC Roma – Milano – 1983

Senza titolo – 1968

litografia

Cartella da sei – tavola 1 – 1968

incisione

Cartella da sei – tavola 3 – 1968

litografia

Senza titolo – 1968

litografia

Senza titolo – 1969

litografia

In hoc signo – tavola 1 – 1970

litografia

In hoc signo – tavola 2 – 1970

litografia

Testo di Lorenza Trucchi

Nel suo vecchio studio a vicolo San Nicola da Tolentino, a pochi passi da piazza Barberini, Capogrossi aveva attaccato alla meglio su una piccola parete i cataloghi delle sue mostre. Tra gli altri spiccava quello di Vehemence confrontées, organizzata a Parigi nel 1951 da Michel Tapié, alla Galerie Nina Dausset. Capogrossi vi era stato invitato, unico artista italiano, assieme a Wais, Hartung, Mathieu, Bryen, Riopelle e Pollock e De Koening, anch’essi per la prima volta a Parigi. Fu una esposizione storica: quei pittori, pur tanto diversi, posti l’uno accanto all’altro in un confronto stilisticamente eterogeneo ma non illegittimo certo molto stimolante, annunciavano e sintetizzavano quel art autre che Tapié doveva spiegare e dispiegare un anno dopa, nel suo celebre album manifesto e che oggi, a tanti anni di distanza, mi sembra ancora una proposizione tra le più illuminanti sulla stupefacente avventura dell’arte dell’immediato dopoguerra: “Le problème, scriveva il critico francese, ne consiste pas à remplacer un thème figuratif par une absence de thème […], mais bien à faire une œuvre, avec ou sans thème, devant laquelle, on s’aperçoit petit à petit que l’on perd pied, que l’on es appellé à entrer en extase ou en démence… “.

Il bisogno di avventura, il desiderio di cambiare la propria pelle di pittore colto, sapiente, tradizionale, probabilmente Capogrossi li avvertiva da tempo. Forse la sua disubbidienza era nata con la sua stessa ubbidienza. Capogrossi era un pittore molto noto ed affermato fin dal tempo della “Scuola romana”. Tuttavia nella sua pittura degli anni ’30-’40, figurativa e tonale, la realtà non era vista né tantomeno raccontata realisticamente, bensì esposta e composta badando soprattutto alla concordanza di tutte le componenti lessicali. La lezione era ancora quella di “Valeri Plastici”: in un’aura vagamente metafisica si ricercava una perfetta identità tra spazio, colore, luce. È dunque possibile che per questo distacco dal tema, per questa innata avversione verso un verismo illustrative, Capogrossi fosse già da tempo predisposto all’astratto, ad una pittura di auto-rappresentazione, valida di per sé. La guerra segnò il culmine di questa sua tendenza, ben presto trasformatasi in malessere, in crisi. Il pittore avvertiva infatti che il mondo stava cambiando, che persino le case che lo circondavano non rispondevano più ai suoi interrogativi né corrispondevano ai suoi sentimenti. Ma non era uomo che amasse i gesti clamorosi, che chiedesse l’avallo di gruppi o la sanzione di manifesti. Seguitava cosi a stare nel proprio studio, sempre più vuoto ed inospitale, senza più modelle, senza più gli oggetti familiari che per tanti anni avevano animate le sue calibrate, armoniose composizioni. L’anno zero di Capogrossi culminò con la personale alla Galleria del Secolo: gennaio 1950. Da allora, come ha detto Seuphor, “Capogrossi cessò di essere un ottimo pittore e divenne un creatore”.

Questa sua conversione era stata talmente radicale e inattesa da divenire per il pubblico un fatto clamoroso e per la critica un problema tra i più ostici e dibattuti. Per suo canto Capogrossi non fece mai commenti né dichiarazioni. E anche in seguito, persino agli amici più devoti tra i quali i poeti Ungaretti, Mendes, Michaux, Sinisgalli, Libero De Libero, che gli chiedevano qualcosa del suo lavoro, dava sempre una stessa risposta, quella che diede Galileo Galilei al Gran Duca di Toscana: “Provo e riprovo”. Solo una volta con il pudore e la grazia che gli erano propri, Capogrossi ha descritto, quasi in una parabola, la lontana genesi del suo segno, ed è una nascita dove poesia e ragione si identificano in un istintivo ma assoluto bisogno di verità: “Avevo dieci anni e mi trovavo a Roma. Un giorno andai con mia madre in un istituto per ciechi. In una sala due bambini disegnavano. Mi avvicinai: i fogli erano pieni di piccoli segni neri, una sorta di alfabeto misterioso, ma cosi vibrante che per quanto a quell’età non pensassi affatto all’arte, provai una profonda emozione. Sentii fin da allora che i segni non sono necessariamente l’immagine di qualche cosa di visto, ma possono esprimere qualcosa che e dentro di noi, forse la tensione che deriva dall’essere immerso nella realtà? In quel preciso momento nacque, credo, la mia vocazione artistica; e non riuscirono a spegnerla gli studi classici che, per tradizione familiare, dovetti seguire fino a prendere la laurea in diritto. Mi dedicai interamente alla pittura e fui per molti anni e con notevole successo un pittore figurativo. Vi sono ancora molte persone che rimpiangono il mio talento perduto, mentre i più benevoli si meravigliano della mia conversione alla pittura astratta. lo però sono convinto di non avere sostanzialmente cambiato la mia pittura, ma di averla soltanto chiarita. Fin da principio infatti ho cercato di non contentarmi dell’apparenza della natura: ho sempre pensato che lo spazio è una realtà interna alla nostra coscienza, e mi sono proposto di definirlo. Al principio ho usato immagini naturali, paragoni o affinità derivate dal mondo visibile: poi ho cercato di esprimere direttamente ii senso dello spazio che era dentro di me e che realizzavo compiendo gli atti di ogni giorno. Non posso dimenticare il piccolo cieco che con i suoi segni vibranti e muti trovava la forma dello spazio che i suoi occhi non vedevano ma che tuttavia intensamente sentiva e viveva… II ragazzo cieco, mio primo maestro, rappresentava come tempo lo spazio che non poteva vedere. La mia ambizione è di aiutare gli uomini a vedere quello che i loro occhi non percepiscono: la prospettiva dello spazio nel quale nascono le loro opinioni ed azioni”

Basata essenzialmente sul segno, un segno che non è immagine, né figura geometrica, né ideogramma, né tantomeno sigla compendiaria o riduttiva di elementi naturalistici, ma piuttosto seme e cellula, voce e alfabeto del suo linguaggio, l’arte di Capogrossi è di per sé grafica. Da qui l’importanza di questi fogli raccolti dalla 2RC di Roma, datati dal 1950 al 1972 che senza scarti qualitativi si affiancano alla maggiore produzione pittorica dell’artista, sostituendone spesso ii banco di prova. Per Capogrossi intatti non c’è sostanziale differenza tra pittura e incisione. L’una e l’altra sviluppandosi sul piano. L’una e l’altra privilegiando il supporto, la superficie, sia tela o carta. L’una e l’altra basandosi sulla correlazione tra segno e spazio. Se questi elementi costitutivi possono sembrare semplici non è poi semplicistico ii discorso di Capogrossi. Anzi il vero prodigio della sua arte sta proprio nella vasta e ricchissima orchestrazione di questi pochi elementi. Nel saper comunicare tante cose, nell’essere capace di esprimere tanti e cosi diversi stati d’animo, di volta in volta gioiosi, sereni, drammatici, nell’offrirci tante e così mutevoli risposte percettive, partendo sempre da quell’unica matrice, da quel fecondissimo seme che è il suo segno, che si sviluppa, vive, agisce, prolifera sempre in rapporto allo spazio. Fare di un segno spoglio, elementare un mezzo duttile ma profondo (persino iniziatico) di ricerca e di comunicazione, e stata la maggiore e più rivoluzionaria conquista di Capogrossi. Costante ma mai uguale, anzi mutevolissimo nel suo incessante, fantasioso variare in rapporto al colore, alla grandezza, alla collocazione, al ritmo dinamico, al suo addensarsi o rarefarsi, questo segno-oggetto conferisce un valore fenomenologico allo spazio, a sua volta trasformato in “campo”, ossia in una estensione definita dalla agibilità di un sistema di relazioni. Non siamo più dunque nell’ambito razionale e strutturale del neoplasticismo dove le immagini assumevano una valenza ancora architettonica, bensì nell’area mutevole, ambigua, energetica dell’informale. Area difficile da definire e circoscrivere ma alla quale appartengono tutti gli artisti non figurativi impegnati nelle ricerche di materia, di gesto, di segno, spesso concretizzate in una pittura di “tessuto”, in un continuum privo di cesure e soluzioni.

Se è possibile collocare Capogrossi per le sue ricerche segnicospaziali tra i maggiori protagonisti dell’informale, così come è lecito indicarlo come uno dei precursori dell’Optical art (specialmente nella serie di dipinti e di incisioni in bianco e nero dove più intensa e la sensazione di movimento, di blando cinetismo), più difficile è reperire le fonti storiche di questa arte cosi attuale e cosi insolita. Spesso si è paragonato Capogrossi a Mondrian, ma è un paragone impossibile giacchè la geometria neoplastica del pittore olandese è il punto estremo di un graduale, razionale processo di depurazione naturalistica (denaturalizzare è per Mondrian approfondire, e approfondire è semplificare), mentre il segno, mai euclideo, di Capogrossi è invece il punto di partenza verso il dialogo, la comunicazione, dandosi persino come “segnale”. Semmai è ad Arp che nei suoi “rilievi” decora intuitivamente lo spazio appiattendolo, o al Mirò più ideogrammatico o a Klee, inventore sporadico di sublimi alfabeti, che Capogrossi può essere indirettamente avvicinato. E ancor più è forse a Malevic: il primo artista a a parlare nel suo Suprematismo di una geometria dinamica, basata su forme comandate dal sentimento e mosse in puri spazi per leggi più magiche che razionali. Tuttavia quella che in Malevic e ancora geometria, sia pure non derivata come nel neoplasticismo, in Capogrossi diventa antigeometria, pura algebra, semmai. E basterà di quest’algebra afferrare ii segreto meccanismo per capirne anche ii messaggio in codice. Un messaggio, alla pari, di umanità totale e di alta civiltà pittorica.