Henry Moore

opere grafiche – 1981

Testo di Giulio Carlo Argan

Note di Henry Moore sulla sua scultura e sul corpo umano

Quasi tutta la mia opera, sia la scultura che il disegno, è basato sul mio interesse fondamentale per il corpo umano.

Per piú di venti anni, dal 1919 in poi, sia da studente che da insegnante, ho disegnato e scolpito dal nudo; i primi cinque anni, da studente (alla Leeds School of Art e poi al Royal College of Art), e gli altri quindici da insegnante di scultura e disegno’dal vivo al Royal College of Art ed alla Chelsea School of Art.

Non c’è da meravigliarsi se tutto il mio lavoro si basa sulla mia predilezione e studio del corpo umano che è, a mio parere, la base di tutta l’opera scultorea. E’ dal corpo umano, dal nostri corpi, che ci viene il senso della forma e della struttura, del peso, della misura, ecc. – cioè, non si può fare a meno di mettere tutto in relazione con il nostro corpo. Dai primi momenti, impariamo dal seno della madre ciò che è tondo e morbido.

Dalle nostre ginocchia e dai nostri gomiti impariamo quel che è duro. Acquisiamo il senso della misura e della dimensione dal fatto che la persona media va da un metro e sessanta ad un metro e ottanta. Mettiamo in relazione il grande ed il piccolo con la nostra misura. Captiamo le emozioni ed i sentimenti umani osservando gli altri e comprendendo le espressioni del viso e del corpo. Capiamo, infatti, dal portamento delle persone, la loro ansia, la loro tensione mentale o il loro rilassamento, ecc.

Tutte queste emozioni umane possono essere espresse nella scultura attraverso la forma e la struttura.

Moore è un classico che, mentre vive il dramma del proprio secolo, evoca nella memoria e nell’immaginazione i regni di Saturno, l’epoca delle origini e delle grandi mutazioni. E’ uno scultore statuario, e considera perfette le statue allorché assumono la sacralità e l’essenzialità dei simulacri e si direbbero non fatte, ma esistite da sempre nei luoghi di cui, con la loro presenza, materializzano e manifestano il senso magico e cosmico.

Sono grandi e solenni figure ritte o giacenti, come i dolmen e i menhir della preistoria. Anche i piccoli bronzi, cosí spesso ispirati al culto tribale della maternità, sono i simboli antropomorfici di luoghi mitici, ex voto lasciati in primitivi santuari da tribú venute a celebrare un momento di piú intima unione con la natura. Non necessariamente la statuta ripete la sembianza, sempre conserva l’essenza della figura umana; ed è figura la forma che realizza il perfetto equilibrio tra la propria singolarità di oggetto e l’universalità del cosmo. Il vivente diventa figura come il reale indistinto diventa natura.

Nella concezione di Moore lo spazio non è entità geometrica ma esperienza vissuta: lontano e vicino, orizzonte e imminenza, visione e contatto. Ed ha le qualità differenti del solido e dell’atmosferico, della luce e della penombra. La statua è un nucleo centrico, il vuoto complementare alle sue masse è il paesaggio visibile; i suoi risalti sono come monti, le depressioni come valli, i contorni come orizzonti. La mitologia di Moore è tutta in questa relazione originaria ed eterna tra natura e umanità.

Ogni mitologia comanda una ritualità, le statue-simulacri sono piuttosto gli strumenti che gli oggetti del culto. Le loro forme arrotondate e modulate, qualche volta lucidate e specchianti, le collegano ai grandi spazi luminosi; ma le superfici recano i segni del contatto fisico con gli uomini. Primo tra i devoti del simulacro, l’artista non può fare a meno di toccarlo, accarezzarlo, levigarlo o, subitamente irritandosi per la sua indifferenza, percuoterlo, scheggiarlo, graffiarlo. C’è tutta una grafica che si sovrappone alla plastica, ed è già quasi un’interpretazione e un commento, in ogni caso di ridurla e ambientarla nella dimensione dell’umano.

Come disegnatore, Moore non progetta sculture ma raccoglie un’incredibile quantità di materiali per alimentare la sua immaginazione plastica. Ha riempito molte decine di quaderni con disegni a chiaroscuro e a colori: sono figure allo stato di embrioni o di cellule, di cui si verifica la vitalità ponendoli in bagni piú o meno densi di atmosfere colorate. Si ritrovano, nei disegni, i medesimi segni che si notano nelle superfici delle sculture: evidentemente la scultura e la grafica fanno parte dello stesso ciclo ideativo e tecnico. Perciò, appunto, la grafica cerca con la plastica un rapporto intimo, profondo, legandosi alla porosità del travertino, alle macchie variegate e alla trasparenza zuccherina del marmo, alle fatali impurità di fusione del bronzo, alle venature del legno. Il disegno, dunque, è anche un’espansione, un prolungamento della materia nello spazio. « Si pensa – ha scritto Moore senso del fondo dietro l’oggetto o una atmosfera d’attorno invece il problema dello spazio è importante per lo scultore come per il pittore ». E’ il problema di una totalità che si ha soltanto nella visione unitaria di forma e ambiente.

Il lavoro propriamente grafico di Moore è un nesso necessario tra disegno e scultura: sia perché il segno è piú strettamente connesso con l’azione della mano e dell’attrezzo su una materia, sia perché la pressione del torchio accentua la densità e la trasparenza delle atmosfere colorate. Ma c’è un fatto nuovo: le grandi acquetinte (i cui effetti evocano stranamente la « maniera nera » del Bartolozzi) che conservano e accrescono la dimensione statuaria, al punto da dover essere considerate vere o proprie statue sul piano. Ma non c’è la riduzione proiettiva del bassorilievo: l’impressione grafica conserva intatta la plasticità del tutto-tondo. I bianchi delle figure levitano, si stemperano nella spazialità dei fondi, che si fanno piú vicini, pesanti, avvolgenti. Il fondo non più complementare rispetto alla statua, ha la medesima sostanza: e nell’incisione a misura di monumento Moore ottantenne raggiunge finalmente quello ch’era stato l’intento più riposto e profondo della sua ricerca di scultore, significare con un solo, sintetico segno il limite della figura umana e quello dell’orizzonte naturale.