Victor Pasmore

opere grafiche – 1989

Testo di Giulo Carlo Argan

Tra il purismo di Nicholson e il surrealismo visio­nario di Sutherland, il terzo grande della pittura inglese, Victor Pasmore, infila una terza via, di sinte­si e non di compromesso. Dopo un bel passato figurativo nella scia di Sickert, è stato costruttivista, abbastanza vicino agli architetti di Archigram anche per la tensione critica e la volontà progettuale; ma l’autocritica implicita nel suo razionalismo l’ha guidato alla scoperta, in una linea affine a quella di Moore, di un senso più geologico e organico del reale. Razionale ed organico, geometrico e biomorfico non sono semantiche incompatibili, soltanto che la prima si fonda sull’idea, la seconda sull’esperienza.

Col passare degli anni e il progressivo decantarsi della poetica è giunto ad un simbolismo integrale, che compendia l’esperienza del proprio sé profondo e del mondo, della propria interiorità bio-psicologica e dell’ambiente. Dove tutto è simbolico, il simbolo non è più trascendimento, astrazione, metafora: la grande verità di Pasmore è l’identità totale di simbolo e immagine, di immagine e fenomeno, e poiché non c’è realtà al di là del fenomeno, il simbolo fenomeno è tutta la realtà.

Nei dieci anni e più da che vive a Malta, ombelico del Mediterraneo, ha fatto dell’isola il suo habitat del mare la liquida matrice dell’immagine. 

Oggi la sua tecnica prediletta è la grafica di grande formato, forse perché gli permette di ribaltare l’architettura del suo primo costruttivismo stereometrico e di liberare l’immagine dalla contestualità con la consistenza materiale del quadro. E ha trovato a Roma, in quel mago della stampa d’arte che è Valter Rossi, un collaboratore più che un interprete.

La ripetitività della stampa gli era necessaria: avendo ridotto l’arte a processo di simbolizzazione integrale, l’unicità dell’opera diventa una servitù intollerabile. Nella tiratura, serialità limitata, la ripetizione dell’immagine è prescritta dalla sua stessa ritualità. Così come non può non ripetersi la sigla di un ornato bizantino.

La matrice dell’immagine mitica di Pasmore è paesistica, anzi ecologica: l’isola, l’arcipelago, la compenetrazione incessante della terra e del mare.

Il gran foglio bianco è interminata distesa luminosa ed i colori, gli stessi bruni e i neri, sono saturi di luce bevuta. La stupenda suite dei Punti di contatto, descrive la lenta, irresistibile attrazione delle gocce d’acqua che fondono; altrove è il mistero del filtro o del travaso, dei rivoli che si fanno strada nella superficie ruvida, assorbente, il mito sotteso è quello delle nozze (avrebbe detto Blake) di terra, acqua e cielo: o del passaggio trionfante dal caso all’ordine, dalla macchina all’immagine.

Esiste, alla fonte del pensiero estetico inglese, una teoria della macchina (blot); è di Alexander Cozens, nel Settecento illuminista, e fonda la poetica del pittoresco, cioè della natura inventata. Una goccia d’inchiostro cade sulla carta a caso, ma non del tutto, nell’atto c’è comunque un intenzionalità, una virtualità di crescita.

Dal blot, attraverso un processo di improvement, esce una veduta paesistica, come dai grovigli di Turner uno spazio luminoso e dalla divagazione di Sterne un racconto e una morale. Il processo from blot to image di Pasmore è invece, development dal nucleo all’environment, dall’evento-macchina all’immagine-fenomeno-mondo. È un processo rallentato dall’Es al Super-ego, dal mito ctonio, oscuro che portiamo nel corpo all’olimpico, solare che ci avvolge. È così che la simbologia di Pasmore diventa ecologica, mediterranea. Development è anche, fisicamente, ingrandimento. Guardando con la lente il blot diventa isola, promontorio, insenatura, corrente, mare. È un mitologismo a cui corrisponde un macrocosmo: lo stesso ordine naturale o lo stesso mitologismo profondo governa la stilla e gli oceani, le molecole e le montagne. Il padre del simbolismo, Blake, ingrandiva una pulce e ne faceva un mostruoso fantasma. Era mitologia nordica. In quella mediterraneà, di Pasmore, una goccia fa un mare.