Studio di Henry Moore

Coperativa Versiliese
Pietra Santa
Eleonora Rossi nello studio Much Hadham
Henry Moore e Valter Rossi
Henry Moore
Eleonora e Valter Rossi con Henry Moore
Valter e Eleonora Rossi con Henry Moore
Henry Moore
Henry Moore e Eleonora Rossi
Eleonora Rossi e Henry Moore mentre firma il Bon á Tirèr
Valter Rossi, tecnico della Cooperativa Versiliese, Henry Moore ed Eleonora Rossi
Architetto Julio Lafuente, Henry Moore e Valter Rossi 
Henry Moore
Henry Moore, Valter ed Eleonora Rossi 
Henry Moore ed Eleonora Rossi 
Testo di Valter Rossi da La vita è segno

Finalmente, durante l’estate, ebbi l’idea di organizzare uno studio a Pietrasanta, vicino alla sua abitazione estiva. Qui, da trent’anni, Moore era solito passare circa tre mesi con lo scopo “primo” di lavorare il marmo in un laboratorio tra i più antichi e seri della Versilia.

Impiantai così il nostro studio presso la “Cooperativa Versiliese”, specializzata anch’essa nelle cave e nella lavorazione del marmo. L’amico proprietario era entusiasta, solo all’idea, di poter conoscere ed ospitare, attraverso noi, il grande scultore.

Fu messo a nostra disposizione un grande spazio, molto semplice, nel quale montammo il torchio che avevamo costruito contemporaneamente a quello spedito in America. Lo avevamo studiato appositamente per essere montato con facilità presso gli studi d’artista, e completammo l’installazione con tutta l’attrezzatura necessaria alla stampa.

L’esperienza di lavoro che avevamo avuto con gli artisti inglesi Victor Pasmore e Graham Sutherland ci aiutò moltissimo perché Henry Moore, pur frequentando l’Italia ininterrottamente dal dopoguerra, non era stato toccato minimamente nel suo modo d’essere e guardava tutto ciò che avveniva intorno, ogni volta con meraviglia, perché avvenivano fatti che uscivano dai suoi schemi.

Henry Moore aveva, in passato, lavorato molto in acquaforte con delle splendide piccole incisioni che seguivano, in qualche modo, i suoi sketch, usandole probabilmente per incidere nella sua memoria e per riprendere, dalle stesse, sensazioni utili alla lettura delle sue sculture. Andava in cerca di una ambientazione che, sulla carta, trovava più facilmente.

Non era mai entrato nel merito della stampa come media concreto a cui affidarsi e per sentire che il tempo che dedicava alla superficie del rame gli sarebbe ritornato con tutta la forza che normalmente sapeva di ottenere dalla pietra o dal bronzo.

Quest’uomo, più che ottantenne, si applicò con un entusiasmo e una meticolosità incredibile, al punto che se pensavamo, all’inizio, di fare una semplice sperimentazione, venivamo invece coinvolti in una serie complessa di lastre che crescevano in quello spazio, al di là di ogni nostra immaginazione.

Aveva immediatamente capito la qualità dell’acquatinta e la definì, davanti ad una sua prima stampa: un nero con la sua ombra. Fummo meravigliati perché, con tanti artisti che avevano sperimentato questa tecnica, nessuno mai l’aveva descritta con tanta precisione.

Henry Moore aveva notato che, in base alla luce e cambiando il punto di vista, il nero si modificava fortemente, l’immagine acquistava valori di profondità assolutamente diversi, quasi macro tridimensionali.

Per esaltare questo effetto, pensai di portare l’artista ad utilizzare anche la puntasecca, tecnica con la quale le sue intense figure potevano fondersi fino al bianco della carta, assorbendo al suo interno le forme fortemente plastiche, così da dare un effetto di “pura luce”.

Lo sforzo per poter affrontare con la puntasecca lastre di quella dimensione poteva preoccupare anche un giovane. Non ci fu un solo istante in cui Henry Moore interrompesse un segno iniziato e, quando si fermava, era solo per concentrarsi e ripartire, rimanendo però nei suoi orari, dalle 9 alle 12 del mattino e dalle 4 alle 6 di pomeriggio, con una meticolosità studentesca.